La pubblicazione dei dati ISTAT relativi ai consumi culturali dell’Italia nel 2015 ha generato molti commenti e altrettante valutazioni. Molti commentatori si accorgano di questi problemi all’incirca una volta l’anno, quando cioè vengono pubblicati i dati ufficiali. In realtà , almeno fra “gli addetti ai lavori”, questi dati sono noti e circolano grazie agli studi svolti da strutture di ricerca privati e dalle Università . Ma soffermiamoci sulle ricette che a piene mani sono state suggerite in questi giorni per uscire dagli ultimi posti in cui siamo collocati in Europa. Innanzitutto c’è stata una convergenza nell’individuare, allo stesso tempo, un capro espiatorio e un risolutore del problema: la scuola. C’è una abitudine diffusa: attribuire alla scuola ogni possibile responsabilità pressoché su tutto. In questo caso si è scritto che la scuola non incentiva i consumi culturali, non insegna la storia dell’arte e così via. Allo stesso tempo però è stata indicata la scuola come il veicolo attraverso il quale incrementare i consumi culturali, formare i giovani allo studio dell’arte, alla passione per il teatro, la musica e così via, solo se cominciasse a “fare la scuolaâ€. Mi domando quanti di costoro, negli ultimi anni, hanno varcato la soglia di un istituto scolastico, hanno parlato con studenti e docenti, hanno seguito le trasformazioni che, seppur fra mille difficoltà e non sempre in forma omogenea fra Nord e Sud del Paese, hanno attraversato la scuola. Ci sono purtroppo ancora sacche di resistenza ma i cambiamenti hanno riguardato i centri minori come le grandi aree metropolitane. L’altro grande imputato chiamato in causa è stata la televisione e, per certi versi, internet. In questo caso l’accusa è rivolta al mezzo televisivo che “trattiene†a casa gli utenti e non incentiva a uscire di casa per recarsi nei musei, nei teatri, negli spazi culturali. I giudizi sommari non colgono mai l’essenza dei problemi. C’è televisione e televisione. Inoltre come non tener conto che questo mezzo diffonde spettacoli ma anche cinema, musica, informazione e così via. Anche questi sono consumi culturali, pur non contemplando il pagamento di un biglietto (al netto del canone RAI) e la frequentazione di un luogo pubblico. Internet poi (o i social) sono diventati una delle cause che consente, ad esempio, di fruire di mostre o spettacoli, di nuovo senza uscire di casa, e gratuitamente. Quindi una volta segnaliamo che c’è ancora una parte rilevante della popolazione che non ha accesso o non usa internet, e la volta dopo denunciamo un uso spropositato di internet e dei social. Infine il dito puntato (almeno fra le righe) verso il benedetto Sud e gli anziani. C’è mancato poco che si rifacesse il verso a Franceschini per aver tolto la gratuità agli ultra sessantacinquenni. Solo alcuni hanno avuto la bontà di segnalare che la struttura dell’offerta nel mezzogiorno è più debole, più carente rispetto al centro-nord. Persino distribuita sul territorio in modo meno omogeneo del resto del Paese. Basti pensare alla concentrazione dei musei solo in alcune aree e città o alla scarsità di teatri, alla mancanza di sale cinematografiche e alla crisi che ha colpito, qui più che altrove, le biblioteche e le librerie. Magari considerare anche la diversità dei redditi famigliari avrebbe aiutato a capire meglio le ragioni di alcuni dati. Vorrei aggiungere qualche altra considerazione. Innanzitutto, in generale, i consumi culturali comunque crescono, i dati sugli afflussi nei musei sono più che incoraggianti, si moltiplicano le scuole di danza, di musica e di teatro, in qualche caso anche nei centri minori e medi non capoluoghi di provincia, pur in presenza di una crisi economica e di una contrazione della spesa pubblica nel settore culturale che si è prolungata per anni. La recente inversione di tendenza, per altro, al momento riguarda la spesa statale mentre a livello comunale le difficoltà sono ancora molte. Eppure in questo contesto si potrebbero citare molte decine di esempi virtuosi dove, anche grazie alla iniziativa dei cittadini, si sono rianimati spazi culturali, organizzati eventi e manifestazioni, valorizzando le risorse locali. Infine si può fare riferimento ad una questione, per così dire, di fondo. So bene che nel dibattito la questione è controversa e le opinioni divergono. Tuttavia è opinione prevalente che è l’offerta a generare la domanda. Vorrei fare un semplice esempio. Se a Civitavecchia non c’è una stagione lirica, è evidente che non ci possono essere spettatori appassionati di musica lirica ma solo amanti della musica lirica che potranno soddisfare i loro interessi secondo le più diverse modalità . Ad esempio organizzando un pullman per assistere ad uno spettacolo al Teatro dell’Opera di Roma. Non saranno tutti gli appassionati di musica lirica ma solo una parte, magari quelli che hanno una maggiore capacità di spesa determinata dal loro livello di reddito. Ma se al Teatro dell’Opera di Roma si organizzerà uno spettacolo di carattere straordinario, con un cast di artisti di livello internazionale e così via, è probabile che i pullman da Civitavecchia diventino due. Ovvero se il Teatro dell’Opera andrà a Civitavecchia e la sua Orchestra metterà in scena un’opera lirica, è probabile che ci sarà la fila al botteghino. Cosa voglio dire: esiste una “domanda potenziale†di consumi culturali che si trasformerà in domanda effettiva solo se ci sarà una offerta che incontra le esigenze, i desideri, la curiosità di una fascia di pubblico che altrimenti esprimerà un bisogno ma non avrà stimoli sufficienti per cercare di soddisfarli. Quando quindi si fanno valutazioni sugli italiani, la loro pigrizia, il loro disinteresse per la cultura si dovrebbe rifuggire dalla facile tentazione di incolpare esclusivamente i cittadini e domandarsi anche se l’organizzazione dell’offerta culturale è costruita sui bisogni, sugli interessi dei consumatori o solo dei gestori. Insomma un po’ di sana autocritica non guasterebbe e qualche cambiamento forse renderebbe possibile portare anche solo un cittadino in più (meglio se anziano e meridionale…) in un teatro o in un museo e, persino, in una biblioteca riscaldata quanto il circolo dei bocciofili.