Ci sono pochi temi che tornano ripetutamente tutte le volte che si affronta la questione relativa allo sviluppo possibile del nostro Paese. Uno di questi è sicuramente il turismo. Si è arrivati persino a sostenere che “l’Italia potrebbe vivere di solo turismo”. Non manca una lunga e complessa letteratura sul tema e ciò che appare una convinzione diffusa è, allo stesso tempo, al centro di un dibattito molto sostenuto. Per semplificare potremmo dire che gli schieramenti sono divisi sostanzialmente in due: da una parte coloro che immaginano un Paese dove ogni politica è orientata a sostenere, incoraggiare l’afflusso di viaggiatori, a prescindere; dall’altra coloro che temono “invasioni”, soprattutto rispetto a quelle città e a quei luoghi che presentano fragilità determinate dal patrimonio culturale e ambientale particolarmente a rischio per eccesso di pressioni antropiche
(“sovraturismo”). A questo dualismo se ne aggiunge un altro, speculare al primo. Secondo i primi, solo una gestione delle politiche turistiche affidata allo Stato può garantire una organizzazione unitaria della promozione, dell’offerta, degli investimenti necessari. I secondi invece, da una parte reclamano l’autogoverno delle città in modo da garantire il governo dei
flussi, dall’altra però temono che gli interessi locali e le pressioni degli operatori finiscano per generare politiche di segno opposto. Ci sono poi posizioni, per dir così, trasversali, nel senso che auspicano di mantenere in capo allo Stato centrale alcune funzioni (le strategie generali, la promozione ecc) ed altre affidate alle Regioni e ai Comuni. Che il tema sia controverso lo dimostra anche l’attenzione dedicata dal legislatore che ne ha fatto materia, fra le altre, di riforme costituzionali. Quelle più recenti non sono passate al vaglio del voto popolare e quindi è rimasta in vigore la norma dell’art. 117 della Carta Costituzionale che assegna alle Regioni potestà esclusiva in materia di turismo. Il travaglio sul tema è evidenziato anche dalle scelte ondivaghe che i vari Governi hanno adottato nel tempo. Ci sono stati governi che hanno istituito il Ministero del Turismo, altri che hanno affidato le competenze ad un Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio, sino agli ultimi due Governi che hanno proceduto ad accorpamenti con altri Ministeri. Ognuna di queste scelte rispondeva a una idea del turismo e in alcuni casi ne immaginava un possibile sviluppo in relazione con altri settori economici. Ad esempio con i Governi Renzi e Gentiloni, si è scommesso su una politica integrata fra valorizzazione del patrimonio culturale e turismo mentre l’attuale Governo (che in un primo tempo aveva ventilato l’ipotesi di ripristinare il Ministero del Turismo) prevede che la promozione turistica debba viaggiare in parallelo con quella dell’enogastronomia, dei prodotti tipici dell’agricoltura. Nell’uno come nell’altro caso, non sono mancate critiche e perplessità evidenziate in modo trasversale da soggetti pubblici e privati in ragione di una tesi di fondo: le forme di turismo sono molteplici (da quello culturale a quello balneare, da quello di montagna a quello enogastronomico, da quello congressuale a quello religioso, da quello naturalistico a quello lacustre e così via) e hanno quindi bisogno di una politica unitaria. Il turismo è un settore molto importante dell’economia italiana: secondo le stime del World Travel and Tourism Council rappresenta il 9,4% del PIL (Prodotto Interno Lordo) e occupa circa 2,5 milioni di persone. Nel 2017 circa 60 milioni di turisti internazionali hanno visitato il nostro Paese e il dato è in continua crescita. L’Italia è il 5° paese più visitato al mondo. In questo contesto le attrattive storico-culturali risultano essere il primo fattore del flusso turistico proveniente dall’estero. Non solo nelle città, ma anche nei piccoli centri urbani sparsi in tutto il territorio nazionale. L’Organizzazione mondiale del turismo (WTO) dà due definizioni del turismo culturale. Una più ristretta, che indica gli spostamenti per motivazioni essenzialmente culturali: come viaggi di studio, o per partecipare a manifestazioni artistiche ed eventi culturali, per visite a siti e monumenti. L’altra, più ampia, include tutti i viaggi che “soddisfino il bisogno umano di diversità, tendente ad innalzare il livello culturale degli individui ed aumentare la conoscenza, l’esperienza e gli incontri”. Ad attirare il popolo dei turisti culturali non c’è solo quindi un interesse specifico per la visita di monumenti, chiese, musei e siti storici e archeologici, ma anche una motivazione più ampia che spinge a cercare di vivere il fascino della città e dei luoghi d’arte. Dunque non solo opere d’arte e complessi architettonici, ma anche tradizioni, enogastronomia, artigianato e quell’insieme di elementi socio-culturali che caratterizzano uno specifico luogo. Per questo molti sostengono che il turista motivato da interessi culturali cerca di fare del proprio viaggio una esperienza (turismo esperienziale). Gli studi più recenti hanno cercato di individuare i “comportamenti” di questo importante segmento turistico. Le principali caratteristiche sono: maggior reddito disponibile e maggiore capacità di spesa; maggiore livello d’istruzione; interesse per eventi e iniziative legate ai temi del territorio; particolare propensione allo shopping. Secondo i dati 2017 del Centro studi turistici, le città d’arte hanno registrato 44
milioni di visitatori con 115 milioni di presenze. E le previsioni danno il dato in crescita per i prossimi anni.
Il turismo culturale rappresenta ormai da tempo un aspetto consolidato del turismo in Italia: basti pensare che il 36,6% della spesa complessiva sostenuta dai turisti stranieri in Italia riguarda vacanze culturali (12,5 mln di €) e che i turisti stranieri che viaggiano per motivi culturali spendono mediamente ogni giorno il 25% in più degli altri. L’interesse per il patrimonio culturale è testimoniato dalla costante crescita del flusso di visitatori nei musei e nelle aree archeologiche. La riforma del sistema museale, con l’autonomia assegnata a 40 musei e aree archeologiche più importanti, ha dato un notevole contributo allo sviluppo della domanda. Nel 2017 sono stati superati i 50 milioni. Ma il dato più interessante è che la crescita non riguarda più solo le tradizionali mete rappresentate da città d’arte come Roma, Venezia, Firenze, Napoli, Milano ma anche Verona, Padova e Bologna che fra il 2010 e il 2017 sono cresciute con una media superiore al 50%. Il fenomeno si è esteso agli oltre 5.500 borghi italiani che, sempre nel 2017, hanno registrato 22
milioni di arrivi e 95 milioni di presenze con una spesa turistica di circa 8,2 miliardi, di cui più del 50% dovuta a turisti stranieri. Fra il 2010 e il 2017 le presenze turistiche straniere nei borghi sono cresciute del 30,3%. Solo qualche anno fa questi dati erano impensabili. Testimoniano un cambiamento negli orientamenti dei viaggiatori alla ricerca di luoghi meno affollati, poco conosciuti, con un livello della qualità della vita e dell’accoglienza che garantisce quel turismo esperienziale che si va diffondendo soprattutto fra i viaggiatori stranieri. La performance di una città come Matera, che in 7 anni vede le presenze crescere del 176%, è una conferma di una linea di tendenza sempre più diffusa. Proprio la Capitale Europea della Cultura 2019 ha coniato per il turista una nuova definizione: quella di “cittadino temporaneo”, non un semplice visitatore ma un partecipante attivo alla vita cittadina nei giorni in cui è ospite della città. E con questo approccio che va ripensata la politica dell’accoglienza nelle nostre città. Chi arriva deve trovare una comunità viva, che vive bene. In una città dove gli abitanti hanno un’offerta culturale armonica, innovativa, di qualità, anche i “cittadini temporanei” troveranno il modo per vivere una esperienza unica. Non c’è quindi una politica per gli abitanti e una per i visitatori. Ed è con questa impronta che sono cresciute città come Mantova, Padova, Verona e persino centri minori. Sono quindi le comunità locali i principali protagonisti di una nuova politica per il turismo. Ma le Amministrazioni locali non possono essere lasciate sole. Il ruolo delle Regioni, in questo senso, è particolarmente importante. Il metodo è la concertazione, la co-progettazione, con obiettivi condivisi e risorse finalizzate. È il solo modo per accompagnare i territori a crescere, valorizzandone le specificità, senza mortificare l’autonomia e la capacità di autogoverno. La straordinaria unicità del nostro Paese si riflette infatti in ambito regionale. Anche a questa scala è possibile ritrovare i “turismi” che si declinano in territori ben individuati. Le città dotate di un patrimonio culturale particolarmente significativo possono essere traino di territori più vasti, integrando l’offerta e moltiplicando le opportunità. Per questo l’Associazione delle Città d’Arte e Cultura da tempo sostiene la necessità di articolare il sistema dell’offerta ad una scala territoriale, costruendo piattaforme di sviluppo con il concorso degli imprenditori, delle associazioni, degli operatori culturali. Serve tornare a costruire “sistemi turistici locali”, con una pianificazione strategica da collocare all’interno del Piano Strategico del Turismo 2017-2022. I “turismi”, infatti, sono sistemi complessi che attraversano molti settori (dall’ambito produttivo ai servizi) e richiedono politiche convergenti. In un tempo in cui si prevedono incrementi sempre più consistenti di viaggiatori in tutto il mondo, la competizione si fa più difficile ed ardua. Per questo servono politiche di lungo respiro, capaci di farsi guidare da visioni lungimiranti. Non è più tempo di improvvisazioni. Le Città d’Arte ne sono consapevoli.
Pubblicato su Passaggi L’Umbria nel futuro II 2018
Morlacchi Editore Perugia